10/07/12

Giuseppe Giusti (poeta)

 Ho visitato personalmente la casa natale del poeta e visto il divano dove costui si sedeva per scrivere le sue opere. Una interessante esperienza al museo di casa Giusti.

MYSTERIUM





Giuseppe Giusti (Monsummano Terme, 12 maggio 1809Firenze, 31 marzo 1850) è stato un poeta italiano.

 




La vita

L'infanzia

Il poeta nasce a Monsummano Terme il 12 maggio 1809, da una ricca famiglia di proprietari terrieri. Dai sette ai dodici anni fu affidato, per essere istruito, alle cure di Don Antonio Sacchi, ma non ne ricavò nulla di buono: «Avevo sett’anni [...] stetti cinque anni con lui, e ne riportai parecchie nerbate e una perfetta conoscenza dell’ortografia, nessuna ombra del latino [...] pochi barlumi di storia non insegnata; e poi svogliatezza, stizza, noia, persuasione interna di non essere buono a nulla». Nel 1821, il nostro giovane studente frequenta il collegio Zuccagni Orlandini di Firenze, uno dei migliori del Granducato, dove rimane circa dieci mesi; incontra Andrea Francioni, il suo padre-maestro. Un momento fondamentale per la sua formazione intellettuale. «Nella sua scuola non si sentivano urli né strepiti, non carnificine, né invidie [...]. Lo studio era diventato un divertimento; perfino quello della lingua latina [...]. Dieci mesi stetti con lui, ma mi bastarono per sempre». Finito l’anno scolastico, l’istituto chiuse e il nostro futuro poeta dovette trasferirsi, nel novembre del 1822, nel Seminario e Collegio Vescovile di Pistoia; inserito nella classe di “umanità”, corrispondente al nostro attuale liceo, dopo un breve periodo, nove mesi, ne uscì con un attestato abbastanza lusinghiero, che però non ci dice niente della sua formazione culturale.
Il padre del poeta, Domenico, non soddisfatto dell’esperienza pistoiese, riesce ad inserirlo, nell’estate del 1823, nel Real Collegio Carlo Lodovico di Lucca. L’istruzione ricevuta nel Collegio Vescovile di Pistoia era stata talmente carente, che il giovane, «docile, ubbidiente e studioso», dovette riprendere gli studi da un gradino più basso, dalla classe di grammatica. Nei due anni circa, 1823-1825, che il Giusti rimase a Lucca, si esercitò, senza riserve, nella versificazione, inviando al padre sonetti dal gusto epico-lirico, frutto più degli studi accademici della scuola che della sua vera natura creativa. A sedici anni, siamo nel 1825, scrive al padre, polemizzando con il gusto letterario del momento e, con un impeto radicale irriverente, si scaglia contro il romanticismo foscoliano. «È inoltre sorto in oggi, un certo entusiasmo per certe cose che fanno vomitare. Vi è [...] un picciolo opuscoletto, ossia raccolta di lettere di un certo Jacopo Ortis, le quai se tu leggi sentiraivi che tratto tratto, vi sono delle cose che, al dire dei moderni, incantano, le quai sarebbero, mi sparpaglierei il cervello quando penso ecc.; [...] Miseri farnetici! Io vi compatisco; leggete, leggete Botta piuttosto che quella veramente corbelleria di Ortis, leggete Botta, e troverete [...] non sparpagliamenti di cervello [...], ma descrizioni di battaglie, e sparpagliamenti di eserciti, anzi di stati, anzi di nazioni, ed anzi quasi metà del mondo. Che importa a noi se un corbello, un pazzo, vuole per amore sparpagliarsi il cervello [...]». Il ribelle, il contestatore, apprese pochissimo, anche in questo collegio: sufficiente in italiano, ma debole in latino. Tornato in famiglia, a Montecatini, si mise a studiare per prepararsi all’esame d’ammissione all’università di Pisa, dove si iscrisse, «di contraggenio» alla facoltà di Diritto, nel novembre del 1826.


Monumento a Giuseppe Giusti, Monsummano Terme

Il periodo universitario

Per tre anni, Giuseppe Giusti, lontano dalla famiglia, frequenta salotti, bettole, biliardi, teatri, casini e, soprattutto il famoso caffè dell'Ussero, dove improvvisa, a braccio, “scherzi”, “rabeschi”, tra gli applausi e i consensi della gente. Oppresso dai debiti e, infiacchito dalla vita bohémienne, sostiene solo l'esame di filosofia. Richiamato dal padre, a Pescia, dove si era trasferita la famiglia, si annichilisce nell'ozio e nella noia, solo l'amore riesce a rischiarare l'orizzonte grigio della vita di paese. Allaccia una relazione amorosa, protrattasi fino al 1836, con la signora Cecilia Piacentini di Pescia: fu un amore travolgente e corrisposto, non solo fatto di poesie e sospiri. «I miei passi andavano piuttosto verso i giardini di Valchiusa, che verso gli orti del Berni». Nella prima metà di novembre del 1832 il Giusti torna a Pisa per riprendere gli studi interrotti da tre anni.
Aveva fatto con il padre un patto solenne: avrebbe studiato sul serio e nei tempi dovuti, ma le cose non andarono proprio così. Una sera, di febbraio, nel 1833, al Teatro dei Ravvivati (ora Teatro Rossi) di Pisa, molto frequentato dagli studenti universitari, in onore della cantante Rosa Bottrigari, famosa per le sue idee liberali, si distribuirono delle poesie, che dettero nell'occhio agli agenti di polizia. La Bottrigari era giunta a Pisa da Bologna; e quella sera si presentò in scena, a fianco del famoso tenore Poggi, con una ghirlanda di fiori tricolore. Fu un tripudio, un delirio di urla, inneggianti all'Italia libera.
Il rumore di quella serata giunse a Firenze: il Giusti, con altri compagni, venne invitato dalla polizia a fornire spiegazioni in proposito. Seppe rispondere efficacemente all'auditore Lami, negando di trovarsi al teatro, nella sera incriminata. «Come non eravate al teatro, – gli rispose il commissario – se trovo il vostro nome nella lista degli accusati?». «Può essere – replicò – che i birri e le spie mi abbiano tanto nell'animo, da vedermi anche dove non sono. Quella sera l'ho passata in casa Mastiani».
Dire la verità non lo salvò dal divieto di presentarsi all'esame di laurea, che sostenne invece, più tardi, nel 1834, nella sessione giugno/settembre.
Il soggiorno pisano e non solo questo incidente – basti pensare agli echi della rivoluzione parigina del luglio del 1830, i fatti di Modena del 1831 –, furono determinanti per la formazione della sua personalità e della sua poetica. Ne sono prova le sue poesie La ghigliottina a vapore (1833), in cui vengono scagliate le prime invettive contro Francesco IV di Modena, e Rassegnazione e proponimento di cambiar vita (1833). In ambedue, ma specialmente nella seconda, il Giusti affila la sua arma più efficace: l'ironia.

 

 

 

 

L'ambiente fiorentino

Dopo il conseguimento della laurea in giurisprudenza si stabilisce a Firenze. La città non gli fu, dapprima, un soggiorno gradito: il clima non gli si confaceva, e pare non gli si confacesse molto neanche il carattere dei fiorentini, che accusava, fra l’altro, di farsi pagare troppo la «gentilezza attica».
Firenze, comunque, non mancava di svaghi; c’era sempre un gran via vai di stranieri, francesi e inglesi: numerosi i ritrovi eleganti, i ricevimenti, i balli. «Ogni sera grandi scialacqui e grandi spese: rosbif divorati, bottiglie di Sciampagna asciugate». Firenze era in realtà il soggiorno ideale per lui, il miglior osservatorio che egli potesse desiderare ai fini della sua arte, della sua satira; era l’ambiente più rispondente al suo gusto di vivere, immerso nel mondo letterario, politico e galante. La città era uno dei centri più cosmopoliti d’Italia, più della stessa Roma; vi giungevano gli intellettuali e gli artisti più affermati d’Europa. Non c’era libertà di stampa, ma c’era libertà di lettura e di «chiacchiera».
Non si poteva stampar nulla senza subire i rigori di una censura cinica e intransigente, ma chi andava a stampare fuor dei confini, aveva poche noie da temere, mentre le opere clandestine più eversive entravano nel Granducato di contrabbando e vi si diffondevano, a dispetto della polizia. A Firenze, la diffusione dei versi giustiani era ristretta alla cerchia degli amici, ai quali, il poeta, recitava direttamente i suoi lavori (accettando suggerimenti e correzioni). Di ritorno da un soggiorno a Siena, in casa di amici, il Giusti era giunto, all’alba, a Firenze, molto affaticato. Entrato in casa, si era gettato sul letto e si era addormentato profondamente.
Dopo poco, svegliatosi all’improvviso, vide la camera piena di fumo, e un gran puzzo di carta bruciata. «Arrivai ad estinguere il fuoco senza chiamare aiuto. [...] Molti libri miei e d’altri sono perduti irreparabilmente; appunti, abbozzi, studi di vario genere, e segnatamente note prese di proverbi e d’altre cose attenenti alla lingua sono andate in fumo. [...] Questi miseri rimasugli sono là tuttavia in un canto, e non ho cuore per ora di metterci le mani; pure bisognerebbe che me li togliessi dagli occhi, perché non posso ripensarci senza fremere dal fondo delle viscere». Nello stesso anno, a Monsummano, assiste, con amore, l’amatissimo zio Giovacchino, fino alla morte, che sopraggiunge nel maggio del 1843. Non erano passati pochi mesi che un nuovo colpo aggravò la salute del poeta. Una domenica di luglio, in Via dei Banchi, a Firenze, mentre passava davanti al Palazzo Garzoni, lo assalì un gatto infuriato. «Mi graffiò e mi morse senza intaccarmi la pelle, bensì mi lasciò nella gamba sinistra l’impronta dei denti [...]. A dirtela, ebbi una paura del diavolo, non lì nel momento, ma dopo; e per l’impressione ricevuta e per quello che poteva accadere, perché m’accertai che era idrofobo». L’idrofobia gli aveva fatto sempre, fin da ragazzo, un terrore indicibile. Alla fine di gennaio del 1844 egli poté finalmente partire, con la madre, per Roma e Napoli. Si trattenne a Roma pochi giorni, data la pessima stagione; il 9 era già a Napoli e prese alloggio in Via Toledo. Fu accolto con tanta cortesia, la fama delle sue poesie lo aveva preceduto, «che dopo pochi giorni gli pareva d’esser nato là». Il Giusti si trattenne a Napoli oltre un mese: il tempo «diabolico» gli impedì di godersi in pieno la vista del Vesuvio tutto avvolto da una nebbia così folta che, per quanto il vulcano fosse in eruzione, non gli permise di vedere «neppure un razzo di fuoco».
Il poeta, a Napoli, strinse molte amicizie, prima fra tutte con Gabriele Pepe, che nel 1826 aveva avuto a Firenze il famoso duello col Lamartine; con Carlo Poerio, poco dopo arrestato, quale complice dei fratelli Bandiera, e col fratello di lui, Alessandro Poerio. Intanto, il male sconosciuto, che da più di un anno gli stava addosso, lo aveva agitato in un alternarsi di brevi riprese e di lunghe ricadute; quando credeva di essere lì per trovare un po’ di salute, era a un tratto ricacciato nelle sofferenze e nell’angustie morali. Aveva dovuto mettere da parte gli studi, e pensare, più concretamente, alla propria salute. Ma un altro nemico, a suo dire, gli turbava, non poco, il sonno. I suoi scherzi, i suoi «ghiribizzi», appunto perché in gran parte affidati alla diffusione orale, o a quella di manoscritti ricopiati molte volte, e non sempre con diligenza, subivano spesso modificazioni e tagli, o si allungavano in appendici.

 

La vicenda letteraria

«L’ultima batosta – scriveva al Vannucci, il 14 settembre 1844 – avuta a Livorno fu così inaspettata e così fiera, che io credeva di dover finire inchiodato in un fondo di letto». A sua insaputa, nel 1844 a Lugano, venivano pubblicate alcune sue poesie, ad opera di un anonimo editore, forse ben intenzionato, ma non troppo scrupoloso (Poesie italiane tratte da una stampa a penna, Italia, 1844). L’edizione, curata da Cesare Correnti, che ne dettò la prefazione, fu pubblicata a spese del Ciani, presso la Tipografia della Svizzera Italiana a Lugano; ma, dapprima, fu attribuita, erroneamente, alle cure di Giuseppe Mazzini.
Il Giusti se ne risentì vivacemente e, infatti, subito dopo, dava alle stampe i Versi nell’edizione di Livorno (Versi di Giuseppe Giusti, Livorno, Tipografia Bertani e Antonelli, 1844), nella cui dedica alla marchesa Luisa D’Azeglio manifestava il suo sdegno contro lo «stampatore sfrontato e disonesto». Del libretto, mandò molte copie agli amici, dolente di non aver potuto produrre qualcosa di più ampio. Per consolidare la sua fama di poeta, nell’anno seguente, 1845, il Giusti, fece pubblicare dalla tipografia Fabiani, di Bastia, trentadue dei suoi «scherzi».
Questa raccolta non portava il nome dell’autore, ma ormai tutti erano a conoscenza della paternità di quei versi (Versi, Bastia, Tipografia Fabiani, 1845). Nell’agosto del 1845, convinto dall’amico Giovanbattista Giorgini, il poeta di Monsummano si decise a partire, in compagnia della marchesa D’Azeglio e della Vittorina Manzoni, figlia di Alessandro Manzoni, per Milano, «senza un cencio di passaporto, senza un soldo in tasca». Grande curiosità ed interesse suscitò l’arrivo a Milano del Giusti. I versi pubblicati a Bastia correvano per tutte le mani, rispondendo alle attese dei sentimenti di libertà e d’indipendenza che pervadevano il paese da sud a nord. Il Manzoni accolse il «toscano Aristofane» come un suo pari, e lo volle ospite per tutto il tempo del suo soggiorno in Lombardia (circa un mese): «Che pace – scriveva il poeta – che amore, che buona intelligenza tra loro! In Alessandro non so se sia maggiore la bravura o la bontà; l’unico che mi rammenti d’aver conosciuto sul taglio di lui, è il Sismondi». A Milano il poeta conosce gli scrittori e gli intellettuali della cerchia manzoniana: Tommaso Grossi, Giovanni Torti, il Rosmini, gli Arconati, i Litta-Modigliani, Luigi Rossari. Il Manzoni aveva apprezzato il Giusti prima ancora di conoscerlo personalmente.
Rispondendo ad una lettera del Giusti (in data 8 novembre 1843) che gli chiedeva un giudizio sulle sue poesie, così si esprimeva: «Son chicche che non possono esser fatte che in Toscana, che da Lei; giacché, se ci fosse pure quello capace di far così bene imitando, non gli verrebbe in mente d’imitare». Era la prima consacrazione letteraria avuta dal poeta da un grande scrittore.
Dopo le produzioni poetiche del 1844 e del 1845, pubblicò una terza edizione nel 1847 (Nuovi versi di Giuseppe Giusti, Firenze, Tipografia di T. Baracchi, 1847) che ebbe un successo strepitoso di pubblico e di mercato. Scriveva in quei giorni il Giusti alla marchesa Luisa D’Azeglio: «Le cose nuove mi consolano molto. Sapete che anch’io coi miei piccoli ferri ho cercato di tener vivo il fuoco quando pareva semispento [...]. Il paese da morto che era si è riscosso generalmente».

 

L'impegno politico

Gli ultimi anni della vita di Geppino (1848-1850), come lo chiamava, affettuosamente, Alessandro Manzoni, furono contrassegnati dalla grande illusione di un'Italia finalmente libera e dalla disillusione, dovuta al mancato accordo tra i sovrani italiani, nella conduzione della guerra d'indipendenza: prevalsero la ragione di stato e i conflitti interni tra repubblicani e democratici. Ci fu, da parte del poeta, un timido affacciarsi alla finestra della politica: nel 1847 viene eletto, a furore di popolo, “maggiore” della guardia civica di Pescia, e nel 1848 deputato all'Assemblea legislativa toscana. Si chiude, definitivamente, questo incidente di percorso, in quanto la politica, nel suo aspetto più pragmatico della parola, era estranea alla visione del mondo del Giusti. Unica nota lieta, in questo periodo, la nomina (nel 1848) del Giusti ad accademico della Crusca. Benché amico di molti accademici, il Giusti, non era mai stato tenero con le accademie, contrario a tutto ciò che potesse «limitare in qualche modo, anco indiretto, il libero esercizio delle sue facoltà intellettuali». Muore il 31 marzo 1850 nel palazzo dell'amico carissimo, Gino Capponi, in via San Sebastiano, soffocato dal sangue per la rottura di un tubercolo polmonare.



La tomba nella Basilica di "San Miniato a Monte" a Firenze


 

Le opere

Le sue composizioni, peraltro caratterizzate da un piacevole e fluido verso e da un umorismo pungente e venate, talvolta, da una sottile malinconia, hanno come cornice la piccola provincia toscana. Furono pubblicate dapprima in forma sparsa, poi raccolte in varie edizioni nel 1844, 1845, 1847. Fra le più note: Sant'Ambrogio, Il re Travicello, Il brindisi di Girella[1], satira della "morale" dei voltagabbana e degli approfittatori, Le memorie di Pisa, Il papato di Prete Pero. Tra le opere in prosa è da ricordare Memorie inedite che furono pubblicate solo nel 1890 col titolo di Cronaca dei fatti di Toscana e una raccolta di "Proverbi toscani", pubblicati anch'essi postumi (1853). Assai interessante il ricco "Epistolario", dal quale emerge la sua viva parlata toscana e l'adesione alle tesi manzoniane sulla lingua.

 

Note

  1. ^

    « Dedicato al signor di Talleyrand, buon’anima sua »

    ( sottotitolo ufficiale della poesia)

 

Bibliografia

  • Raccolta di proverbi toscani, con illustrazioni, cavata dai manoscritti di Giuseppe Giusti, ed ora ampliata ed ordinata, Firenze, 1853.
  • Poesie di Giuseppe Giusti illustrate da Adolfo Matarelli e commentate dal Prof. Giulio Cappi, Firenze, Nerbini, 1924.
  • F. Martini (a cura di), Tutti gli scritti editi e inediti di Giuseppe Giusti, Firenze, Barbera, 1924.
  • Epistolario di Giuseppe Giusti, raccolto ordinato e annotato da Ferdinando Martini. Con XXI appendici illustrative. Nuova edizione con l’aggiunta di
sessantadue lettere e di altre due appendici, Felice Le Monnier, 1932, vol. I-V.
  • Giuseppe Giusti, Cronaca dei fatti di Toscana (1845-1849), Ristampa anastatica dell’edizione Le Monnier, Firenze, 1948 a cura di Pietro Pancrazi.
  • M. Parenti, Bibliografia delle opere di Giuseppe Giusti, Firenze, Sansoni, 1951-52.
  • Nunzio Sabbatucci, Opere di Giuseppe Giusti, nella collana Classici italiani, Unione Tip.-Ed. Torinese, Torino 1976.
  • M.A. Balducci, La morte di re Carnevale, Firenze, Le Lettere, 1989.
  • M. Bossi, M. Branca (a cura di), Giuseppe Giusti. Il tempo e i luoghi, Firenze, Olschki, 1999.
  • Giuseppe Giusti, Gingillino, a cura di Giampiero Giampieri, Luigi Angeli, Pistoia, Editrice C.R.T., 2000.
  • L. Angeli (a cura di),Giuseppe Giusti. Lettere familiari edite e inedite, Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, 2001.
  • I. Rivalta, La poetica di Giuseppe Giusti, tesi di laurea in letteratura italiana, anno accademico 2000/2001.
  • L. Angeli, Lo 'sbirro' Giuseppe Giusti senior, in "Nebulae", n. 21, 2002.
  • R. Diolaiuti, Giuseppe Giusti e la genesi del federalismo toscano, Firenze, Le Lettere, 2004.
  • L. Angeli, E. Carfora, G. Giampieri, Giuseppe Giusti. "E trassi dallo sdegno il mesto riso", Pistoia, Settegiorni Editore, 2010.
  • A. Carrannante, "La 'sanità' toscana:Giuseppe Giusti e Michele Amari", in "Otto/Novecento", maggio/agosto 2010, pp. 37–44.


Il Re Travicello

 Al Re Travicello
piovuto ai ranocchi,
mi levo il cappello
e piego i ginocchi;

lo predico anch'io
cascato da Dio:
oh comodo, oh bello
un Re Travicello!

Calò nel suo regno
con molto fracasso;
le teste di legno
fan sempre del chiasso:

ma subito tacque,
e al sommo dell'acque
rimase un corbello
il Re Travicello.

Da tutto il pantano
veduto quel coso,
«È questo il Sovrano
così rumoroso? »

(s'udì gracidare).
«Per farsi fischiare
fa tanto bordello
un Re Travicello?

Un tronco piallato
avrà la corona?
O Giove ha sbagliato,
oppur ci minchiona:

sia dato lo sfratto
al Re mentecatto,
si mandi in appello
il Re Travicello».

Tacete, tacete;
lasciate il reame,
o bestie che siete,
a un Re di legname.

Non tira a pelare,
vi lascia cantare,
non apre macello
un Re Travicello.

 

 

Sant' Ambrogio

Vostra Eccellenza, che mi sta in cagnesco
per que' pochi scherzucci di dozzina,
e mi gabella per anti–tedesco
perché metto le birbe alla berlina,
o senta il caso avvenuto di fresco,
a me che, girellando una mattina,
capito in Sant'Ambrogio di Milano,
in quello vecchio, là, fuori di mano.

M'era compagno il figlio giovinetto
d'un di que' capi un po' pericolosi,
di quel tal Sandro, autor d'un romanzetto
ove si tratta di promessi sposi...
Che fa il nesci, Eccellenza? o non l'ha letto?
Ah, intendo: il suo cervel, Dio lo riposi,
in tutt'altre faccende affaccendato,
a questa roba è morto e sotterrato.

Entro, e ti trovo un pieno di soldati,
di que' soldati settentrionali,
come sarebbe Boemi e Croati,
messi qui nella vigna a far da pali:
difatto, se ne stavano impalati,
come sogliono in faccia a' Generali,
co' baffi di capecchio e con que' musi,
davanti a Dio diritti come fusi.

Mi tenni indietro; ché piovuto in mezzo
di quella maramaglia, io non lo nego
d'aver provato un senso di ribrezzo,
che lei non prova in grazia dell'impiego.
Sentiva un'afa, un alito di lezzo:
scusi, Eccellenza, mi parean di sego
in quella bella casa del Signore
fin le candele dell'altar maggiore.

Ma in quella che s'appresta il sacerdote
a consacrar la mistica vivanda,
di sùbita dolcezza mi percuote
su, di verso l'altare, un suon di banda.
Dalle trombe di guerra uscìan le note
come di voce che si raccomanda,
d'una gente che gema in duri stenti
e de' perduti beni si rammenti.

Era un coro del Verdi; il coro a Dio
là de' Lombardi miseri assetati;
quello: O Signore, dal tetto natio,
che tanti petti ha scossi e inebriati.
Qui cominciai a non esser più io




Lo stivale

 Io non son della solita vacchetta,
né sono uno stival da contadino;
e se pajo tagliato coll'accetta,
chi lavorò non era un ciabattino:
mi fece a doppie suola e alla scudiera,
e per servir da bosco e da riviera.

Dalla coscia giù giù sino al tallone
sempre all'umido sto senza marcire;
son buono a caccia e per menar di sprone,
e molti ciuchi ve lo posson dire:
tacconato di solida impuntura,
ho l'orlo in cima, e in mezzo la costura.

Ma l'infilarmi poi non è sì facile,
né portar mi potrebbe ogni arfasatto;
anzi affatico e stroppio un piede gracile,
e alla gamba dei più son disadatto;
portarmi molto non potè nessuno,
m'hanno sempre portato a un po' per uno.

Io qui non vi farò la litania
di quei che fur di me desiderosi;
ma così qua e là per bizzarria
ne citerò soltanto i più famosi,
narrando come fui messo a soqquadro,
e poi come passai di ladro in ladro.

Parrà cosa incredibile: una volta,
non so come, da me presi il galoppo,
e corsi tutto il mondo a briglia sciolta;
ma camminar volendo un poco troppo,
l'equilibrio perduto, il proprio peso
in terra mi portò lungo e disteso.

Allora vi successe un parapiglia;
e gente d'ogni risma e d'ogni conio
pioveano di lontan le mille miglia,
per consiglio d'un Prete o del Demonio:
chi mi prese al gambale e chi alla fiocca,
gridandosi tra lor: bazza a chi tocca.
Volle il Prete, a dispetto della fede,
calzarmi coll'ajuto e da sé solo;
poi sentì che non fui fatto al suo piede,
e allora qua e là mi dette a nolo:
ora alle mani del primo occupante
mi lascia, e per lo più fa da tirante.

Tacca col Prete a picca e le calcagna
volea piantarci un bravazzon tedesco,

 


05/07/12

Henry Purcell

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
(EN)
« …the greatest Genius we ever had. »
(IT)
« ...il più grande genio che abbiamo mai avuto. »


Biografia

Fra i grandi principi della musica barocca, di Henry Purcell si hanno scarse notizie biografiche. La sua stessa opera è sprofondata nell’oscurità per lungo tempo e solo nel XX secolo è stata riscoperta contribuendo a donare nuovo vigore alla scuola compositiva britannica.

 

Anni giovanili

Henry Purcell nacque probabilmente a Westminster il 10 settembre del 1659. Suo padre, Henry Purcell il Vecchio, era un Gentiluomo della Cappella Reale e cantò all’incoronazione di re Carlo II d'Inghilterra. Fu maestro del coro dell’Abbazia di Westminster per tre anni, ricoprendo anche vari incarichi nell’Orchestra Reale e condividendo il ruolo di “liuto e voce” con Angelo Notari. Alla morte di quest’ultimo, avvenuta probabilmente nel 1663, Purcell il Vecchio si fece carico anche delle mansioni lasciate inadempiute dal collega, morendo però anch’egli l’anno successivo, nel 1664. Secondo alcune fonti biografiche dell’epoca, il giovane Henry doveva avere circa 6 anni alla morte del padre, cosa che farebbe perciò risalire la sua nascita al 1658 anziché al 1659. La questione sembra al giorno d’oggi ancora lungi dall’essere risolta.
Dopo la morte del padre nel 1664, il giovane Henry venne seguito da suo zio Thomas Purcell (1682†), il quale gli dimostrò sempre grande affetto e gentilezza. Anch’egli Gentiluomo della Cappella Reale, successe ad Henry Lawes come liutista di corte, ottenendo anche altri incarichi di rilevanza, probabilmente in virtù del favore e dell’influenza che deteneva presso la Corona. Grazie al prestigio dello zio, il giovane Henry divenne così corista nella Cappella Reale sotto la guida del Capitano Cooke, un valente musicista che ottenne il rango militare combattendo per la causa dei Realisti durante la Guerra Civile. Secondo quanto attestano i diari di Samuel Pepys, Cooke aveva uno straordinario assortimento di fanciulli sotto di sé che istruì con grande rigore e dedizione. Quando qualcuno di loro si accingeva per la prima volta a scrivere qualche composizione, egli lo incoraggiava vivamente. Proprio in questo ambiente così fecondo il giovane Henry Purcell passò la sua infanzia, sviluppando abilità sorprendenti.
Leggende narrano che Purcell componeva musica già all’età di 9 anni, ma la prima opera che poté essere attribuita a lui fu un’ode per il compleanno del Re, risalente al 1670. Cooke morì nel 1672 e Pelham Humphreys venne nominato nuovo maestro di cappella. Esperto musicista, Humphreys aveva lavorato sotto la guida di Jean-Baptiste Lully. Non è noto se egli abbia avuto anche altri maestri a Parigi o in Italia, ma probabilmente apprese molta della tecnica di Giacomo Carissimi, assai in voga in quel periodo. Pur non avendo né la ricca immaginazione, né la genialità compositiva di Purcell, egli ebbe comunque il merito di aver introdotto nuovi stili compositivi e un nuovo metodo d’insegnamento, aprendo vie ancora sconosciute alla scuola barocca britannica. Fu una sfortuna per l’Inghilterra che egli morì così prematuramente. Hemphreys aveva indubbiamente talento, dimostrandosi meno artificioso rispetto a John Blow, che gli successe nel 1674. Questi in seguito si vantò di essere stato il maestro di Purcell, e, siccome il giovane Henry fu certamente il suo pupillo, non ci sono ragioni di dubitarne. Henry Purcell aveva circa sedici anni quando Humphries morì, ormai era abbastanza cresciuto per essere un semplice corista. Sui registri dell’Orchestra Reale, il 10 giugno 1673 è annotata «l’autorizzazione per ammettere Henry Purcell nelle funzioni di custode, fabbricante, riparatore, accomodatore ed accordatore di organi, virginali, flauti e tutti gli altri qualsivoglia strumenti a fiato di Sua Maestà, ed assistente di John Higston».[2] Nel 1683, quando Purcell era ormai divenuto organista dell’Abbazia di Westminster, fu nominato «fabbricante e custode di organi al posto di Mr. Hingston, deceduto».[2]
Si può immaginare che l’istruzione ricevuta dal Dr. Blow sia stata principalmente nel suonare l’organo, arte nella quale Blow era uno maestro assai stimato. Nel contempo non devono essere dimenticate anche le parole dello stesso Purcell, che riteneva Blow «il più grande maestro di composizione al mondo». Purcell lodò molto dell’abilità e della perizia tecnica di Blow, alla quale amava attenersi e fare costante riferimento. È verosimile che Blow possa aver insegnato a Purcell qualcosa dello stile più antico, quello di Lulli e della scuola barocca italiana, certamente appreso da Humphreys. John Blow era nato nel 1648, ed era un anno più giovane di Humphreys e dieci più vecchio di Purcell. Nel 1669 era divenuto organista dell’Abbazia di Westminster. Egli, come Humphreys, e, a dire il vero, come la maggior parte dei musicisti del periodo, aveva numerosi incarichi, ottenendone in seguito sempre di più alto profilo. Si dice che egli rassegnò la carica presso Westminster nel 1680 per favorire la carriera di Purcell. Che la rinuncia del posto di organista sia stata volontaria oppure no non è possibile saperlo con certezza, ma senza dubbio Purcell prese il suo nuovo ufficio in quella data. Dopo la morte di Purcell nel 1695, il Dr. Blow riprese nuovamente l’incarico, mantenendolo sino alla sua morte, nel 1708.

 

La maturità

Purcell compose opere teatrali famose tra cui The Libertin. Nel 1679 compose un inno per la Chapel-Royal. Durante il periodo nel quale occupò la carica di organista presso l'Abbazia di Westminster si dedicò quasi esclusivamente alla scrittura di Musica Sacra, e per sei anni non si dedicò più al teatro. Nonostante ciò, probabilmente prima di diventare organista compose due importanti opere teatrali, quali la musica per Theodosius e per Virtuous Wife. La composizione della sua opera Didone ed Enea, che rappresenta un’importante tappa nella storia della musica drammatica inglese, è attribuita a questo periodo. Questo capolavoro è considerato il primo autentico d’Inghilterra. Poco dopo il matrimonio con Frances nel 1682, Purcell venne promosso ad organista della cappella reale, una posizione che poté tenere simultaneamente a quella nell’abbazia. Negli anni seguenti si occupò della produzione di musica sacra, odi per il Re e la famiglia reale, ed altre simili composizioni. Purcell riprese il suo lavoro in ambito teatrale nel 1687, fornendo la musica per Tyrannic Love, di Dryden. Tre anni dopo compose la colonna sonora per The Tempest di Shakespeare, ripresa da Dryden, e, nei mesi ed anni a venire, ne scrisse molte altre per diverse opere teatrali conosciute all’epoca. Il Te Deum and Jubilate di Purcell fu scritto per il giorno di Santa Cecilia, nel 1693. Fu il primo Te Deum con accompagnamento d’orchestra. Questo capolavoro veniva suonato annualmente alla cattedrale di St. Paul, fino al 1712, quando fu alternato con quello di Händel.
Durante l'ultimo anno della sua vita (1695) scrisse la semi-opera La Tempesta, uno dei suoi più grandi capolavori. Purcell morì nella propria casa, nel Dean’s Yard, a Westminster, nel 1695, all’apice della gloria. Sua moglie e tre dei sei figli gli sopravvissero. Ella morì nel 1706, dopo aver pubblicato numerose sue opere, tra cui l'ormai famoso Orpheus britannicus. La causa di morte di Purcell è tutt’ora incerta, esistono due teorie. Una di queste narra che sia morto di polmonite, essendo rimasto chiuso fuori casa in una sera particolarmente fredda e umida dopo essere rientrato tardi da un'opera; l’altra, più bizzarra, afferma che sia stato avvelenato tramite cioccolata. Forse la più credibile è che sia morto di tubercolosi, una malattia assai diffusa all'epoca. Dopo la morte, Purcell fu onorato da molti suoi contemporanei: Händel lo prese a modello in molti lavori musicali ed in uno scritto di R.J.S. Stevens risalente al 1775 si racconta che al tempo in cui Handel era già cieco, in una sera in cui stava assistendo ad una esecuzione del suo oratorio Jephta, il maestro dello stesso Stevens, William Savage seduto al fianco del vecchio compositore sassone si avvicinò dicendo: "Questo movimento mi ricorda la musica del nostro vecchio Purcell!", e Handel rispose: "Và al Diavolo! Se qui oggi ci fosse Mr Purcell, avrebbe composto qualcosa di molto migliore!". In Gran Bretagna sono stati fondati numerosi circoli ed associazioni in sua memoria.

Composizioni

Purcell si cimentò sia in opere teatrali nel nascente genere dell’opera lirica, che in composizioni strumentali. Nei suoi brani incorpora elementi stilistici italiani e francesi, e crea un particolare stile di musica barocca inglese. Avendo un enorme talento ebbe l’onore di comporre musica per gli anniversari di compleanno, e infine per i funerali della Regina Maria II (questo lavoro è stato rielaborato da Wendy Carlos per la colonna sonora di Arancia meccanica di Stanley Kubrick col titolo Beethoviana [1]). Nella sua carriera ha inoltre composto 42 duetti ed oltre 100 canzoni, inni ed odi. Molti di questi furono scritti per la voce del Basso Profondo, il quale è noto per il suo timbro cavernoso. Per lungo tempo fu a lui erroneamente attribuita la composizione del trumpet tune The Prince of Denmark's March scritto in realtà da Jeremiah Clarke, compositore suo contemporaneo e collaboratore di suo fratello minore Daniel. Purcell è uno dei compositori barocchi che ha avuto una diretta influenza sui compositori inglesi moderni, quali Benjamin Britten, Tavener, Nyman e persino musicisti rock odierni come Pete Townshend dei The Who si sono ispirati ai suoi capolavori.

Opere teatrali

Musica strumentale

  • 12 Sonate a tre, per violino, viola da gamba e cembalo (1683)
  • 10 Sonate a quattro, per due violini, viola da gamba e cembalo (Pubblicate nel 1697)
  • 13 Sinfonie per viola da gamba (1680)
  • 8 Suites per clavicembalo

Note


  1. ^ Daniel Jones. English Pronouncing Dictionary. Cambridge University Press, 17th edition, 2006. ISBN 0-521-68087-5.
  2. ^ a b John F. Runciman. Purcell. George Bell & Sons, Londra, 1909. Cap.I.