Ho visitato personalmente la casa natale del poeta e visto il divano dove costui si sedeva per scrivere le sue opere. Una interessante esperienza al museo di casa Giusti.
MYSTERIUM
Giuseppe Giusti (Monsummano Terme, 12 maggio 1809 – Firenze, 31 marzo 1850) è stato un poeta italiano.
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La vita
L'infanzia
Il poeta nasce a Monsummano Terme il 12 maggio 1809,
da una ricca famiglia di proprietari terrieri. Dai sette ai dodici anni
fu affidato, per essere istruito, alle cure di Don Antonio Sacchi, ma
non ne ricavò nulla di buono: «Avevo sett’anni [...] stetti cinque anni
con lui, e ne riportai parecchie nerbate e una perfetta conoscenza
dell’ortografia, nessuna ombra del latino [...] pochi barlumi di storia
non insegnata; e poi svogliatezza, stizza, noia, persuasione interna di
non essere buono a nulla». Nel 1821,
il nostro giovane studente frequenta il collegio Zuccagni Orlandini di
Firenze, uno dei migliori del Granducato, dove rimane circa dieci mesi;
incontra Andrea Francioni, il suo padre-maestro. Un momento fondamentale
per la sua formazione intellettuale. «Nella sua scuola non si sentivano
urli né strepiti, non carnificine, né invidie [...]. Lo studio era
diventato un divertimento; perfino quello della lingua latina [...].
Dieci mesi stetti con lui, ma mi bastarono per sempre». Finito l’anno
scolastico, l’istituto chiuse e il nostro futuro poeta dovette
trasferirsi, nel novembre del 1822,
nel Seminario e Collegio Vescovile di Pistoia; inserito nella classe di
“umanità”, corrispondente al nostro attuale liceo, dopo un breve
periodo, nove mesi, ne uscì con un attestato abbastanza lusinghiero, che
però non ci dice niente della sua formazione culturale.
Il padre del poeta, Domenico, non soddisfatto dell’esperienza pistoiese, riesce ad inserirlo, nell’estate del 1823, nel Real Collegio Carlo Lodovico di Lucca. L’istruzione ricevuta nel Collegio Vescovile di Pistoia
era stata talmente carente, che il giovane, «docile, ubbidiente e
studioso», dovette riprendere gli studi da un gradino più basso, dalla
classe di grammatica. Nei due anni circa, 1823-1825, che il Giusti
rimase a Lucca, si esercitò, senza riserve, nella versificazione,
inviando al padre sonetti dal gusto epico-lirico, frutto più degli studi
accademici della scuola che della sua vera natura creativa. A sedici
anni, siamo nel 1825,
scrive al padre, polemizzando con il gusto letterario del momento e,
con un impeto radicale irriverente, si scaglia contro il romanticismo
foscoliano. «È inoltre sorto in oggi, un certo entusiasmo per certe cose
che fanno vomitare. Vi è [...] un picciolo opuscoletto, ossia raccolta
di lettere di un certo Jacopo Ortis, le quai se tu leggi sentiraivi che
tratto tratto, vi sono delle cose che, al dire dei moderni, incantano,
le quai sarebbero, mi sparpaglierei il cervello quando penso ecc.; [...]
Miseri farnetici! Io vi compatisco; leggete, leggete Botta piuttosto
che quella veramente corbelleria di Ortis, leggete Botta, e troverete
[...] non sparpagliamenti di cervello [...], ma descrizioni di
battaglie, e sparpagliamenti di eserciti, anzi di stati, anzi di
nazioni, ed anzi quasi metà del mondo. Che importa a noi se un corbello,
un pazzo, vuole per amore sparpagliarsi il cervello [...]». Il ribelle,
il contestatore, apprese pochissimo, anche in questo collegio:
sufficiente in italiano, ma debole in latino. Tornato in famiglia, a
Montecatini, si mise a studiare per prepararsi all’esame d’ammissione
all’università di Pisa, dove si iscrisse, «di contraggenio» alla facoltà
di Diritto, nel novembre del 1826.
Il periodo universitario
Per tre anni, Giuseppe Giusti, lontano dalla famiglia, frequenta
salotti, bettole, biliardi, teatri, casini e, soprattutto il famoso
caffè dell'Ussero, dove improvvisa, a braccio, “scherzi”, “rabeschi”,
tra gli applausi e i consensi della gente. Oppresso dai debiti e,
infiacchito dalla vita bohémienne, sostiene solo l'esame di filosofia.
Richiamato dal padre, a Pescia, dove si era trasferita la famiglia, si
annichilisce nell'ozio e nella noia, solo l'amore riesce a rischiarare
l'orizzonte grigio della vita di paese. Allaccia una relazione amorosa,
protrattasi fino al 1836, con la signora Cecilia Piacentini di Pescia:
fu un amore travolgente e corrisposto, non solo fatto di poesie e
sospiri. «I miei passi andavano piuttosto verso i giardini di Valchiusa,
che verso gli orti del Berni». Nella prima metà di novembre del 1832 il
Giusti torna a Pisa per riprendere gli studi interrotti da tre anni.
Aveva fatto con il padre un patto solenne: avrebbe studiato sul serio
e nei tempi dovuti, ma le cose non andarono proprio così. Una sera, di
febbraio, nel 1833,
al Teatro dei Ravvivati (ora Teatro Rossi) di Pisa, molto frequentato
dagli studenti universitari, in onore della cantante Rosa Bottrigari,
famosa per le sue idee liberali, si distribuirono delle poesie, che
dettero nell'occhio agli agenti di polizia. La Bottrigari era giunta a
Pisa da Bologna; e quella sera si presentò in scena, a fianco del famoso
tenore Poggi, con una ghirlanda di fiori tricolore. Fu un tripudio, un
delirio di urla, inneggianti all'Italia libera.
Il rumore di quella serata giunse a Firenze: il Giusti, con altri
compagni, venne invitato dalla polizia a fornire spiegazioni in
proposito. Seppe rispondere efficacemente all'auditore Lami, negando di
trovarsi al teatro, nella sera incriminata. «Come non eravate al teatro,
– gli rispose il commissario – se trovo il vostro nome nella lista
degli accusati?». «Può essere – replicò – che i birri e le spie mi
abbiano tanto nell'animo, da vedermi anche dove non sono. Quella sera
l'ho passata in casa Mastiani».
Dire la verità non lo salvò dal divieto di presentarsi all'esame di laurea, che sostenne invece, più tardi, nel 1834, nella sessione giugno/settembre.
Il soggiorno pisano e non solo questo incidente – basti pensare agli echi della rivoluzione parigina del luglio del 1830,
i fatti di Modena del 1831 –, furono determinanti per la formazione
della sua personalità e della sua poetica. Ne sono prova le sue poesie La ghigliottina a vapore (1833), in cui vengono scagliate le prime invettive contro Francesco IV di Modena, e Rassegnazione e proponimento di cambiar vita (1833). In ambedue, ma specialmente nella seconda, il Giusti affila la sua arma più efficace: l'ironia.
L'ambiente fiorentino
Dopo il conseguimento della laurea in giurisprudenza si stabilisce a
Firenze. La città non gli fu, dapprima, un soggiorno gradito: il clima
non gli si confaceva, e pare non gli si confacesse molto neanche il
carattere dei fiorentini, che accusava, fra l’altro, di farsi pagare
troppo la «gentilezza attica».
Firenze, comunque, non mancava di svaghi; c’era sempre un gran via
vai di stranieri, francesi e inglesi: numerosi i ritrovi eleganti, i
ricevimenti, i balli. «Ogni sera grandi scialacqui e grandi spese:
rosbif divorati, bottiglie di Sciampagna asciugate». Firenze era in
realtà il soggiorno ideale per lui, il miglior osservatorio che egli
potesse desiderare ai fini della sua arte, della sua satira; era
l’ambiente più rispondente al suo gusto di vivere, immerso nel mondo
letterario, politico e galante. La città era uno dei centri più
cosmopoliti d’Italia, più della stessa Roma; vi giungevano gli
intellettuali e gli artisti più affermati d’Europa. Non c’era libertà di
stampa, ma c’era libertà di lettura e di «chiacchiera».
Non si poteva stampar nulla senza subire i rigori di una censura
cinica e intransigente, ma chi andava a stampare fuor dei confini, aveva
poche noie da temere, mentre le opere clandestine più eversive
entravano nel Granducato di contrabbando e vi si diffondevano, a
dispetto della polizia. A Firenze, la diffusione dei versi giustiani era
ristretta alla cerchia degli amici, ai quali, il poeta, recitava
direttamente i suoi lavori (accettando suggerimenti e correzioni). Di
ritorno da un soggiorno a Siena, in casa di amici, il Giusti era giunto,
all’alba, a Firenze, molto affaticato. Entrato in casa, si era gettato
sul letto e si era addormentato profondamente.
Dopo poco, svegliatosi all’improvviso, vide la camera piena di fumo, e
un gran puzzo di carta bruciata. «Arrivai ad estinguere il fuoco senza
chiamare aiuto. [...] Molti libri miei e d’altri sono perduti
irreparabilmente; appunti, abbozzi, studi di vario genere, e
segnatamente note prese di proverbi e d’altre cose attenenti alla lingua
sono andate in fumo. [...] Questi miseri rimasugli sono là tuttavia in
un canto, e non ho cuore per ora di metterci le mani; pure bisognerebbe
che me li togliessi dagli occhi, perché non posso ripensarci senza
fremere dal fondo delle viscere». Nello stesso anno, a Monsummano,
assiste, con amore, l’amatissimo zio Giovacchino, fino alla morte, che
sopraggiunge nel maggio del 1843. Non erano passati pochi mesi che un
nuovo colpo aggravò la salute del poeta. Una domenica di luglio, in Via
dei Banchi, a Firenze, mentre passava davanti al Palazzo Garzoni, lo
assalì un gatto infuriato. «Mi graffiò e mi morse senza intaccarmi la
pelle, bensì mi lasciò nella gamba sinistra l’impronta dei denti [...]. A
dirtela, ebbi una paura del diavolo, non lì nel momento, ma dopo; e per
l’impressione ricevuta e per quello che poteva accadere, perché
m’accertai che era idrofobo». L’idrofobia gli aveva fatto sempre, fin da
ragazzo, un terrore indicibile. Alla fine di gennaio del 1844 egli poté
finalmente partire, con la madre, per Roma e Napoli. Si trattenne a
Roma pochi giorni, data la pessima stagione; il 9 era già a Napoli e
prese alloggio in Via Toledo. Fu accolto con tanta cortesia, la fama
delle sue poesie lo aveva preceduto, «che dopo pochi giorni gli pareva
d’esser nato là». Il Giusti si trattenne a Napoli oltre un mese: il
tempo «diabolico» gli impedì di godersi in pieno la vista del Vesuvio
tutto avvolto da una nebbia così folta che, per quanto il vulcano fosse
in eruzione, non gli permise di vedere «neppure un razzo di fuoco».
Il poeta, a Napoli, strinse molte amicizie, prima fra tutte con
Gabriele Pepe, che nel 1826 aveva avuto a Firenze il famoso duello col
Lamartine; con Carlo Poerio, poco dopo arrestato, quale complice dei
fratelli Bandiera, e col fratello di lui, Alessandro Poerio. Intanto, il
male sconosciuto, che da più di un anno gli stava addosso, lo aveva
agitato in un alternarsi di brevi riprese e di lunghe ricadute; quando
credeva di essere lì per trovare un po’ di salute, era a un tratto
ricacciato nelle sofferenze e nell’angustie morali. Aveva dovuto mettere
da parte gli studi, e pensare, più concretamente, alla propria salute.
Ma un altro nemico, a suo dire, gli turbava, non poco, il sonno. I suoi
scherzi, i suoi «ghiribizzi», appunto perché in gran parte affidati alla
diffusione orale, o a quella di manoscritti ricopiati molte volte, e
non sempre con diligenza, subivano spesso modificazioni e tagli, o si
allungavano in appendici.
La vicenda letteraria
«L’ultima batosta – scriveva al Vannucci, il 14 settembre 1844 –
avuta a Livorno fu così inaspettata e così fiera, che io credeva di
dover finire inchiodato in un fondo di letto». A sua insaputa, nel 1844 a
Lugano, venivano pubblicate alcune sue poesie, ad opera di un anonimo
editore, forse ben intenzionato, ma non troppo scrupoloso (Poesie
italiane tratte da una stampa a penna, Italia, 1844). L’edizione, curata
da Cesare Correnti, che ne dettò la prefazione, fu pubblicata a spese
del Ciani, presso la Tipografia della Svizzera Italiana a Lugano; ma,
dapprima, fu attribuita, erroneamente, alle cure di Giuseppe Mazzini.
Il Giusti se ne risentì vivacemente e, infatti, subito dopo, dava
alle stampe i Versi nell’edizione di Livorno (Versi di Giuseppe Giusti,
Livorno, Tipografia Bertani e Antonelli, 1844), nella cui dedica alla
marchesa Luisa D’Azeglio manifestava il suo sdegno contro lo «stampatore
sfrontato e disonesto». Del libretto, mandò molte copie agli amici,
dolente di non aver potuto produrre qualcosa di più ampio. Per
consolidare la sua fama di poeta, nell’anno seguente, 1845, il Giusti,
fece pubblicare dalla tipografia Fabiani, di Bastia, trentadue dei suoi
«scherzi».
Questa raccolta non portava il nome dell’autore, ma ormai tutti erano
a conoscenza della paternità di quei versi (Versi, Bastia, Tipografia
Fabiani, 1845). Nell’agosto del 1845, convinto dall’amico Giovanbattista
Giorgini, il poeta di Monsummano si decise a partire, in compagnia
della marchesa D’Azeglio e della Vittorina Manzoni, figlia di Alessandro
Manzoni, per Milano, «senza un cencio di passaporto, senza un soldo in
tasca». Grande curiosità ed interesse suscitò l’arrivo a Milano del
Giusti. I versi pubblicati a Bastia correvano per tutte le mani,
rispondendo alle attese dei sentimenti di libertà e d’indipendenza che
pervadevano il paese da sud a nord. Il Manzoni accolse il «toscano
Aristofane» come un suo pari, e lo volle ospite per tutto il tempo del
suo soggiorno in Lombardia (circa un mese): «Che pace – scriveva il
poeta – che amore, che buona intelligenza tra loro! In Alessandro non so
se sia maggiore la bravura o la bontà; l’unico che mi rammenti d’aver
conosciuto sul taglio di lui, è il Sismondi». A Milano il poeta conosce
gli scrittori e gli intellettuali della cerchia manzoniana: Tommaso
Grossi, Giovanni Torti, il Rosmini, gli Arconati, i Litta-Modigliani,
Luigi Rossari. Il Manzoni aveva apprezzato il Giusti prima ancora di
conoscerlo personalmente.
Rispondendo ad una lettera del Giusti (in data 8 novembre 1843) che
gli chiedeva un giudizio sulle sue poesie, così si esprimeva: «Son
chicche che non possono esser fatte che in Toscana, che da Lei; giacché,
se ci fosse pure quello capace di far così bene imitando, non gli
verrebbe in mente d’imitare». Era la prima consacrazione letteraria
avuta dal poeta da un grande scrittore.
Dopo le produzioni poetiche del 1844 e del 1845, pubblicò una terza
edizione nel 1847 (Nuovi versi di Giuseppe Giusti, Firenze, Tipografia
di T. Baracchi, 1847) che ebbe un successo strepitoso di pubblico e di
mercato. Scriveva in quei giorni il Giusti alla marchesa Luisa
D’Azeglio: «Le cose nuove mi consolano molto. Sapete che anch’io coi
miei piccoli ferri ho cercato di tener vivo il fuoco quando pareva
semispento [...]. Il paese da morto che era si è riscosso generalmente».
L'impegno politico
Gli ultimi anni della vita di Geppino (1848-1850), come lo chiamava,
affettuosamente, Alessandro Manzoni, furono contrassegnati dalla grande
illusione di un'Italia finalmente libera e dalla disillusione, dovuta al
mancato accordo tra i sovrani italiani, nella conduzione della guerra
d'indipendenza: prevalsero la ragione di stato e i conflitti interni tra
repubblicani e democratici. Ci fu, da parte del poeta, un timido
affacciarsi alla finestra della politica: nel 1847
viene eletto, a furore di popolo, “maggiore” della guardia civica di
Pescia, e nel 1848 deputato all'Assemblea legislativa toscana. Si
chiude, definitivamente, questo incidente di percorso, in quanto la
politica, nel suo aspetto più pragmatico della parola, era estranea alla
visione del mondo del Giusti. Unica nota lieta, in questo periodo, la
nomina (nel 1848) del Giusti ad accademico della Crusca.
Benché amico di molti accademici, il Giusti, non era mai stato tenero
con le accademie, contrario a tutto ciò che potesse «limitare in qualche
modo, anco indiretto, il libero esercizio delle sue facoltà
intellettuali». Muore il 31 marzo 1850 nel palazzo dell'amico carissimo, Gino Capponi, in via San Sebastiano, soffocato dal sangue per la rottura di un tubercolo polmonare.
La tomba nella Basilica di "San Miniato a Monte" a Firenze |
Le opere
Le sue composizioni, peraltro caratterizzate da un piacevole e fluido
verso e da un umorismo pungente e venate, talvolta, da una sottile
malinconia, hanno come cornice la piccola provincia toscana. Furono
pubblicate dapprima in forma sparsa, poi raccolte in varie edizioni nel 1844, 1845, 1847. Fra le più note: Sant'Ambrogio, Il re Travicello, Il brindisi di Girella[1], satira della "morale" dei voltagabbana e degli approfittatori, Le memorie di Pisa, Il papato di Prete Pero. Tra le opere in prosa è da ricordare Memorie inedite che furono pubblicate solo nel 1890 col titolo di Cronaca dei fatti di Toscana e una raccolta di "Proverbi toscani", pubblicati anch'essi postumi (1853).
Assai interessante il ricco "Epistolario", dal quale emerge la sua viva
parlata toscana e l'adesione alle tesi manzoniane sulla lingua.
Note
- ^
« Dedicato al signor di Talleyrand, buon’anima sua » ( sottotitolo ufficiale della poesia)
Bibliografia
- Raccolta di proverbi toscani, con illustrazioni, cavata dai manoscritti di Giuseppe Giusti, ed ora ampliata ed ordinata, Firenze, 1853.
- Poesie di Giuseppe Giusti illustrate da Adolfo Matarelli e commentate dal Prof. Giulio Cappi, Firenze, Nerbini, 1924.
- F. Martini (a cura di), Tutti gli scritti editi e inediti di Giuseppe Giusti, Firenze, Barbera, 1924.
- Epistolario di Giuseppe Giusti, raccolto ordinato e annotato da Ferdinando Martini. Con XXI appendici illustrative. Nuova edizione con l’aggiunta di
sessantadue lettere e di altre due appendici, Felice Le Monnier, 1932, vol. I-V.
- Giuseppe Giusti, Cronaca dei fatti di Toscana (1845-1849), Ristampa anastatica dell’edizione Le Monnier, Firenze, 1948 a cura di Pietro Pancrazi.
- M. Parenti, Bibliografia delle opere di Giuseppe Giusti, Firenze, Sansoni, 1951-52.
- Nunzio Sabbatucci, Opere di Giuseppe Giusti, nella collana Classici italiani, Unione Tip.-Ed. Torinese, Torino 1976.
- M.A. Balducci, La morte di re Carnevale, Firenze, Le Lettere, 1989.
- M. Bossi, M. Branca (a cura di), Giuseppe Giusti. Il tempo e i luoghi, Firenze, Olschki, 1999.
- Giuseppe Giusti, Gingillino, a cura di Giampiero Giampieri, Luigi Angeli, Pistoia, Editrice C.R.T., 2000.
- L. Angeli (a cura di),Giuseppe Giusti. Lettere familiari edite e inedite, Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, 2001.
- I. Rivalta, La poetica di Giuseppe Giusti, tesi di laurea in letteratura italiana, anno accademico 2000/2001.
- L. Angeli, Lo 'sbirro' Giuseppe Giusti senior, in "Nebulae", n. 21, 2002.
- R. Diolaiuti, Giuseppe Giusti e la genesi del federalismo toscano, Firenze, Le Lettere, 2004.
- L. Angeli, E. Carfora, G. Giampieri, Giuseppe Giusti. "E trassi dallo sdegno il mesto riso", Pistoia, Settegiorni Editore, 2010.
- A. Carrannante, "La 'sanità' toscana:Giuseppe Giusti e Michele Amari", in "Otto/Novecento", maggio/agosto 2010, pp. 37–44.