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Primavera | |
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Autore | Sandro Botticelli |
Data | 1482 circa |
Tecnica | Tempera su tavola |
Dimensioni | 203 × 314 cm |
Ubicazione | Galleria degli Uffizi, Firenze |
La Primavera è un dipinto tempera su tavola (203x314 cm) di Sandro Botticelli, databile al 1482 circa e conservato nella Galleria degli Uffizi a Firenze.
Si tratta del capolavoro dell'artista, nonché di una delle opere più famose del Rinascimento italiano. Vanto della Galleria, faceva forse anticamente pendant con l'altrettanto celebre Nascita di Venere,
con cui condivide la provenienza storica, il formato e alcuni
riferimenti filosofici. Il suo straordinario fascino che tuttora
esercita sul pubblico è legato anche all'aura di mistero che circonda
l'opera, il cui significato più profondo non è ancora stato
completamente svelato[1].
Storia
Le fonti hanno ormai largamente confermato che il dipinto venne eseguito per Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici (1463-1503), cugino di secondo grado del Magnifico di circa quindici anni più giovane, non sempre in ottimi rapporti con il cugino maggiore, incaricato de facto di governare Firenze[1]. Gli inventari di famiglia del 1498, 1503 e 1516 hanno anche chiarito la sua collocazione originaria, nel Palazzo di via Larga, dove rimase prima di essere trasferita nella Villa di Castello, dove il Vasari riferisce di averla vista nel 1550, accanto alla Nascita di Venere[2].
Il titolo con cui è universalmente conosciuto il dipinto deriva proprio
dall'annotazione del Vasari ("Venere che le Grazie fioriscono,
dinotando Primavera"), dalla quale derivano anche le linee cardine su
cui si sono mossi tutti i tentativi di interpretazione[1].
Nel 1815 si trovava già nel Guardaroba mediceo e nel 1853 venne trasferita alla Galleria dell'Accademia
per lo studio dei giovani artisti che frequentavano la scuola; con il
riordino delle collezioni fiorentine venne trasferita agli Uffizi nel 1919[3].
Se nella critica non vi è alcun dubbio circa l'autografia di
Botticelli, piuttosto discordi sono le ipotesi sulla datazione. Gli
estremi sono quelli della collaborazione presso i Medici, dal 1477 al 1490, con la sospensione del viaggio a Roma, per affrescare tre episodi biblici nella Cappella Sistina, degli anni 1480-1482. Lightbrown ipotizzò una datazione immediatamente successiva al rientro dalla Città eterna, nel 1482, coincidendo con le nozze del committente Lorenzo il Popolano con Semiramide Appiani[3]: l'allegoria di Venere, rappresentata al centro del dipinto, sarebbe anche legata a un oroscopo di Lorenzo, come risulta da una lettera di Marsilio Ficino
a lui indirizzata, in cui il filosofo lo esortava a indirizzare il
proprio agire secondo la configurazione astrale che ne dominava il tema
natale, cioè proprio Venere e Mercurio[2].
Questa ipotesi è oggi la più accettata dalla critica, sostituendo ormai quella al 1478, prima della partenza per Roma.
Descrizione
In un ombroso boschetto, che forma una sorta di esedra di aranci
colmi di frutti e arbusti sullo sfondo di un cielo azzurrino, stanno
disposti nove personaggi, in una composizione bilanciata ritmicamente e
fondamentalmente simmetrica attorno al perno centrale della donna col
drappo rosso e verde sulla veste setosa[1].
Il suolo è composto da un verde prato, disseminato da un'infinita
varietà di specie vegetali, tra cui ricchissimo campionario di fiori[1]: nontiscordardimé, iris, fiordaliso, ranuncolo, papavero, margherita, viola, gelsomino, ecc.
I personaggi e l'iconografia generale vennero identificati nel 1888 da Adolph Gaspary, basandosi sulle indicazioni di Vasari, e, fondamentalmente, non sono più stati messi in discussione[1]. Cinque anni dopo Aby Warburg
articolò infatti la descrizione che venne sostanzialmente accettata da
tutta la critica, sebbene sfugga tuttora il senso complessivo della
scena[1].
L'opera è ambientata in un boschetto di aranci (il giardino delle Esperidi) e va letta da destra verso sinistra, forse perché la collocazione dell'opera imponeva una visione preferenziale da destra[2]. Zefiro (o Boreo), vento di primavera che piega gli alberi, rapisce per amore la ninfa Cloris, fecondandola; da questo atto ella rinasce trasformata in Flora,
la personificazione della stessa primavera rappresentata come una donna
dallo splendido abito fiorito che sparge a terra le infiorescenze che
tiene in grembo[1].
A questa trasformazione allude anche il filo di fiori che già inizia a
uscire dalla bocca di Cloris durante il suo rapimento. Al centro
campeggia Venere, inquadrata da una cornice simmetrica di arbusti, che sorveglia e dirige gli eventi, quale simbolo neoplatonico dell'amore più elevato[1]. Sopra di lei vola il figlio Cupido, mentre a sinistra si trovano le sue tre tradizionali compagne vestite di veli leggerissimi, le Grazie, occupate in un'armoniosa danza in cui muovono ritmicamente le braccia e intrecciano le dita[1].
Chiude il gruppo a sinistra un disinteressato Mercurio, coi tipici calzari alati, che col caduceo scaccia le nubi per preservare un'eterna primavera[1].
Interpretazioni
Come succede per altri grandi capolavori del Rinascimento, la Primavera
nasconde vari livelli di lettura: uno strettamente mitologico, legato
ai soggetti rappresentati, la cui spiegazione è ormai appurata; uno
filosofico, legato alla filosofia dell'accademia neoplatonica
e ad altre dottrine; uno storico-dinastico, legato alle vicende
contemporanee ed alla gratificazione del committente e della sua
famiglia.
Queste ultime due letture, con le rispettive ramificazioni possibile,
sono più controverse, ed hanno registrato i molteplici interventi di
studiosi e storici dell'arte, senza tuttavia giungere a un risultato
definitivo o almeno ampiamente condiviso.
Lettura legata al committente
Una prima serie di interpretazioni lega i personaggi mitologici del
dipinto a individui fiorentini dell'epoca, come in una mascherata
carnevalesca, e alla loro celebrazione tramite rappresentazioni
simboliche delle loro virtù[2].
Partendo dall'inventario mediceo del 1498, Mirella Levi D'Ancona ha ipotizzato che il dipinto possa essere l'allegoria del matrimonio tra Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici e Semiramide Appiani; Botticelli lo avrebbe oltretutto eseguito in due momenti successivi, perché l'opera era stata inizialmente commissionata da Giuliano de' Medici in occasione della nascita del figlio Giulio (futuro papa Clemente VII), avuto con Fioretta Gorini che egli avrebbe sposato in gran segreto nel 1478.
Ma come è noto Giuliano morì nella congiura dei Pazzi
ordita contro il fratello in quello stesso anno, un mese prima della
nascita del figlio, per cui il quadro incompiuto venne "riciclato" dal
cugino qualche tempo dopo per celebrare le sue nozze, inserendovi il suo
ritratto e quello della moglie, che si diceva essere donna dall'estrema
bellezza. Il gruppo di destra rappresenterebbe l'istintualità e la
passionalità notoriamente condannate dal neoplatonismo perché portatrici
di atteggiamenti irrazionali.
Secondo questa interpretazione i personaggi raffigurerebbero:
- Venere = Fioretta Gorini (prima versione), poi l'Amore Universale
- Mercurio = Lorenzo di Pierfrancesco
- Tre Grazie = Amore humanus (la Grazia al centro ha le sembianze di Seramide Appiani), cioè spirituale, puro, elevato, secondo i principi dell'umanesimo platonico
- Zefiro-Cloris-Flora = Amore Ferinus (bestiale)
I fiori presenti nella scena alluderebbero a vari significati matrimoniali: fiordalisi, margherite e nontiscordardimé alludono alla donna amata, i fiori d'arancio sugli alberi sono ancora oggi un simbolo di felicità matrimoniale, così come la borrana che si vede sul prato[4].
In base ad altri ritratti dipinti da Botticelli o da altri artisti
della sua cerchia, nei vari protagonisti della rappresentazione sono
stai individuati vari personaggi di casa Medici. Trattandosi però spesso
di opere altamente idealizzate, si tratta per lo più di semplici
ipotesi, più o meno suggestive.
In particolare nelle tre Grazie sono state riconosciute Caterina Sforza (a destra), confrontando con la Santa Caterina d'Alessandria (sempre di profilo) nel Lindenau-Museum di Altenburg, e Simonetta Vespucci (al centro), la fonte di ispirazione per la Nascita di Venere, che guarda sognante verso Mercurio-Giuliano de' Medici[2].
Lettura storica
Secondo Horst Bredekamp, che data la tavola a non prima del 1485, oltre alle evidenti implicazioni filosofiche, si dovrebbe considerare il dipinto come allegoria dell'età medicea, intesa come età dell'oro, ma sotto la guida di Lorenzo di Pierfrancesco e non del Magnifico, confermandone così la committenza. La presenza di Flora sarebbe pertanto un'allusione a Florentia e dunque alle antiche origini della città.
Si tratta di un'interpretazione che tiene notevolmente conto di
numerose implicazioni di carattere storico e politico dell'epoca e che
riprende la generale tendenza degli ultimi decenni a "smitizzare" la
figura del Magnifico in favore del ramo cadetto della famiglia, cui
verrebbe attribuita un'importanza forse per molto tempo rimasta
sconosciuta ma non ancora pienamente verificata.
Le altre figure sarebbero città legate in vario modo a Firenze: Mercurio-Milano, Cupido (Amor)-Roma, le Tre Grazie come Pisa, Napoli e Genova, la ninfa Maya come Mantova, Venere come Venezia e Borea come Bolzano.
Lettura filosofica
Sicuramente nella Primavera il mito venne scelto per
rispecchiare verità morali, adottando un tema antico, quindi universale,
a un linguaggio del tutto moderno[5].
Il primo critico a mettere il dipinto direttamente in relazione con la cerchia di filosofici neoplatonici frequentata da Botticelli fu Aby Warburg nel 1893, che lesse la Primavera come la trasposizione di un distico di Agnolo Poliziano, ricco di citazioni letterarie antiche. Sarebbe quindi la rappresentazione di Venere dopo la nascita (raffigurata nell'altro celebre dipinto della serie), durante l'arrivo nel suo regno[2].
Ernst Gombrich nel 1945, poi perfezionato negli anni cinquanta da Wind e negli anni sessanta da Panofsky, lesse la Primavera come addirittura il manifesto del sodalizio estetico e artistico dell'Accademia di Careggi.
Vi si narrerebbe come l'amore, nei suoi diversi gradi, arrivi a
staccare l'uomo dal mondo terreno per volgerlo a quello spirituale[2].
La scena si svolgerebbe nel giardino sacro di Venere, che la mitologia collocava nell'isola di Cipro, come rivelano gli attributi tipici della dea sullo sfondo (per es. il cespuglio di mirto alle sue spalle) e la presenza di Cupido e Mercurio
a sinistra in funzione di guardiano del bosco, che infatti tiene in
mano un caduceo per scacciare le nubi della pioggia (anche se egli viene
insolitamente raffigurato in una posizione che lo rende estraneo al
resto della scena). Le Tre Grazie
rappresentavano tradizionalmente le liberalità, ma la parte più
interessante del dipinto è quella costituita dal gruppo di personaggi
sulla destra, con Zefiro, la ninfa Cloris e la dea Flora,
divinità della fioritura e della giovinezza, protettrice della
fertilità. Zefiro e Clori rappresenterebbero la forza dell'amore
sensuale e irrazionale, che però è fonte di vita (Flora) e, tramite la
mediazione di Venere ed Eros, si trasforma in qualcosa di più perfetto
(le Grazie), per poi spiccare il volo verso le sfere celesti guidato da
Mercurio[2].
Oltre alle teorie di Marsilio Ficino e la poetica del Poliziano, Botticelli dovette ispirarsi anche alla letteratura classica (Ovidio e Lucrezio),
soprattutto per quanto riguarda la metamorfosi di Cloris in Flora;
tuttavia, il centro focale della composizione è Venere, che secondo
l'ideologia neoplatonica sarebbe la rappresentazione figurata del suo
mondo secondo il seguente schema:
- Venere = Humanitas, ovvero le attività spirituali dell'uomo
- Tre Grazie = fase operativa dell'Humanitas'
- Mercurio = la Ragione, che guida le azioni dell'uomo allontanando le nubi della passione e dell'intemperanza
- Zefiro-Cloris-Flora = la Primavera, simbolo della natura non tanto intesa come stagione dell'anno quanto forza universale ciclica e dal potere rigenerativo.
Per Panofsky la Venere della Primavera sarebbe la Venere celeste, vestita, simbolo dell'amore spirituale che spinge l'uomo verso l'ascesi mistica, mentre la Nascita raffigurerebbe la Venere terrena, nuda, simbolo dell'istintualità e della passione che ricacciano gli individui verso il basso[2].
Numerose sono le proposte di lettura per le Grazie. Il loro movimento
di alzare e abbassare le braccia ricorda filosoficamente il principio
base dell'amore (da Seneca), la Liberalità, in cui ciò che si dà viene restituito[4]. Esse possono rappresentare anche tre aspetti dell'amore, descritti da Marsilio Ficino: da sinistra, la Voluttà (Voluptas), dalla capigliatura ribelle, la Castità (Castitas), dallo sguardo malinconico e dall'atteggiamento introverso, e la Bellezza (Pulchritudo),
con al collo una collana che sostiene un'elegante prezioso pendente e
dal velo sottile che le copre i capelli, verso la quale sembra stare per
scoccare la freccia Cupido[4]. Secondo una rilettura di Esiodo esse sarebbero invece Aglaia, lo splendore, Eufrosine, la gioia e Talia, la prosperità.
Claudia Villa (italianista contemporanea) è portata a considerare che i fiori, secondo una tradizione che ha origine in Duns Scoto, costituiscono l'ornamento del discorso e identifica il personaggio centrale nella Filologia, per cui riferisce la scena alle Nozze di Mercurio e Filologia
rovesciando anche le identità dei personaggi che stanno alla nostra
destra. Così la figura dalla veste fiorita è da vedersi come la Retorica, la figura che sembra entrare impetuosamente nella scena come Flora generatrice di poesia
e di bel dire, mentre il personaggio alato, che sembra sospingere più
che attrarre a sé la fanciulla, sarebbe un genio ispiratore.
In tale contesto interpretativo diventa difficile giustificare i
colori freddi con cui è rappresentato il personaggio, a meno che
l'autore non volesse affidare a questa scelta la smaterializzazione e il
carattere spirituale dell'ispirazione poetica. Può risultare invece più
comprensibile il disinteresse alla scena che sembra mostrare Mercurio,
dio dei Mercanti.
Altre letture
Un'ulteriore interpretazione, meno fortunata, di Ernst Gombrich suggerisce un riferimento al Giudizio di Paride tratto dall'Asino d'oro di Apuleio.
Studi assai interessanti sono stati fatti sui rapporti dimensionali
delle parti della scena in riferimento a regole musicali. Altri hanno
ipotizzato che il dipinto sia una sorta di calendario agreste abbreviato
della bella stagione[2]: da febbraio (Zefiro) a settembre (Mercurio), nell'augurio di una primavera senza fine[6].
Carmelo Ciccia vi ha letto un'illustrazione del poemetto latino Pervigilium Veneris (I-IV secolo) riguardo alla figura di Flora, leggibile come allegoria della città siciliana di Ibla
che nei versi 49-52 è descritta come intenta a versare tutti i fiori
prodotti dall'anno e ad indossare una veste di fiori grande quanto la
piana etnea.
Stile
Nell'opera sono leggibili alcune caratteristiche stilistiche tipiche
dell'arte di Botticelli: innanzitutto l'innegabile ricerca di bellezza
ideale e armonia, emblematiche dell'umanesimo, che si attua nel ricorso
in via preferenziale al disegno e alla linea di contorno (derivato
dall'esempio di Filippo Lippi).
Ciò genera pose sinuose e sciolte, gesti calibrati, profili idealmente
perfetti. La scena idilliaca viene così ad essere dominata da ritmi ed
equilibri formali sapientemente calibrati, che iniziano dal ratto e si
esauriscono nel gesto di Mercurio[7]. L'ondeggiamento armonico delle figure, che garantisce l'unità della rappresentazione, è stato definito "musicale"[2].
In ogni caso l'attenzione al disegno non si risolve mai in effetti
puramente decorativi, ma mantiene un riguardo verso la volumetria e la
resa veritiera dei vari materiali, soprattutto nelle leggerissime vesti[2].
L'attenzione dell'artista è tutta focalizzata sulla descrizione dei
personaggi, e in secondo luogo delle specie vegetali accuratamente
studiate, forse dal vero, sull'esempio di Leonardo da Vinci
che in quell'epoca era già artista affermato. Minore cura è riservata,
come al solito in Botticelli, allo sfondo, con gli alberi e gli arbusti
che creano una quinta scura e compatta. Il verde usato, come accade in
altre opere dell'epoca, doveva originariamente essere più brillante, ma
col tempo si è ossidato arrivando a tonalità più scure.
Le figure spiccano con nitidezza sullo sfondo scuro, con una
spazialità semplificata, sostanzialmente piatta o comunque poco
accennata, come negli arazzi. Non si tratta di un richiamo verso l'ormai lontana fantasia del mondo gotico, come una certa critica artistica ha sostenuto[7],
ma piuttosto dimostra l'allora nascente crisi degli ideali prospettici e
razionali del primo Quattrocento, che ebbe il suo culmine in epoca
savonaroliana (1492-1498) ed ebbe radicali sviluppi nell'arte del XVI
secolo, verso un più libero inserimento delle figure nello spazio[5].
Tecnica
La tecnica usata nel dipinto è estremamente accurata, a partire dalla
sistemazione delle assi di notevole dimensioni che, unite tra loro,
formano il supporto[6].
Su di esse Botticelli stese una preparazione diversificata a seconda
delle zone: beige chiara dove vennero dipinte le figure e nera per la
vegetazione. Su di essa il pittore stese poi la colorazione a tempera in
strati successivi, arrivando a effetti di grande leggerezza[6].