La cultura musicale classica americana: tra innovazione ed americanismi
Verso la fine dell’ottocento, dopo cent’anni di tradizione musicale genericamente importata dall’occidente e che copre anche gran parte del periodo romantico, gli Stati Uniti, unitamente alla loro economia, svilupparono anche la loro identità musicale, un ruolo che ancora oggi è pienamente attivo e che fa da stimolo anche alla più vecchia cultura musicale occidentale. Alcuni uomini furono dei veri e propri “fari” per la continuità musicale nel mondo e sarebbe bene parlare di loro in misura maggiore di quello che se ne fa oggi, poichè si pensa più alla fruizione che all’importanza di una scoperta musicale: vero è che ci vogliono persone giuste al momento giusto, ma chissà perché in Europa, dove certe tendenze erano più forti, non ci sono state sempre adeguate ricomposizioni da prima linea.
Dicevamo uomini: uno dei più influenti artisti è stato Charles Ives: come descrive Steve Schwartz in una biografia su Classic Net: “……..I primi compositeri, come William Billings da una parte e Edward MacDowell dall’altra, provarono ad esprimere gli Stati Uniti in musica, ma i loro sforzi erano o troppo legati alle piccole forme vernacolari o pagavano tributo nell’idioma o nell’approccio strutturale ai modelli Europei di quel tempo. E’ difficile separare MacDowell da Schumann, per esempio, a meno che non si parli di qualità. Ives fu il primo americano che non suonava come nessuno in Europa, non era né Brahms, né Wagner, né Debussy.” Ives cercò di esprimere l’intero spirito del paese, soprattutto di quel paese colto medio borghese che faceva del benessere culturale una ragione di vita e lo sbatteva in faccia agli Europei; non a caso Ives fu esponente musicale della corrente letteraria del Trascendentalismo, ossia di quella disciplina derivante dall’Illuminismo di Kant che criticava la ragione e dava piena libertà ai rapporti verso l’uomo e la natura: tale teoria riversata in musica, significava un neonato ed incredibile sperimentalismo, un rifiuto “graduale” del modo di suonare del periodo: dopo gli inizi romantici che già facevano intravedere una diversità negli approcci musicali, subito dopo la terza sinfonia, il compositore americano si gettò a capofitto nei suoi nuovi teoremi fornendo una “base” musicale riscontrabile soprattutto nelle composizioni pianistiche, che costituirà repertorio per gran parte dei pianisti classici del novecento: il suo stile comprendeva elementi tipicamente americani (inni, marce, orchestrina da banda, etc.) ed interventi nella atonalità (usando terzi o quarti di tono).
Un altro americano importante fu Henry Cowell: tutti i musicisti che si fregiano dell’etichetta di “modernità” devono qualcosa a questo compositore, che già all’epoca assieme ad altri suoi contemporanei, veniva considerato come “ultramodernista” (esiste un cd della MDG in tal senso); Cowell era un compositore affamato di musica che non si accontentò di dare un contributo fondamentale alla sperimentazione sugli strumenti, scoprendo le possibilità dei tone clusters (ossia il suono irriverente, atonale, costruito con la pressione contemporanea di più note sul piano, che creò la figura del pianista radicale), o le sonorità derivanti dall’uso delle tecniche estese (suonava con le mani dentro il telaio del piano e spesso si faceva aiutare per l’uso dei pedali), o le tecniche ritmico-armoniche effettuate sugli archi, ma cercò nei suoi continui viaggi all’estero, specie in Oriente, di codificare una volta per sempre l’esistenza delle tradizioni musicali dei paesi, dando ufficialità al movimento di preservazione della “world music”: è con lui che nasce e viene riconosciuto il genere.
Un’altro grande sperimentatore musicale fu George Antheil, che ancora oggi viene ricordato per il suo “Ballet Mécanique” in cui la composizione viene tutta pensata nell’ottica percussiva di una macchina: Antheil era una persona piena di interessi particolari nondimeno quelli belligeranti, tuttavia è necessario valutarlo anche sulla base delle altre opere pubblicate in particolare le sinfonie nelle quali è evidente il contributo stilistico apportato al genere, evidentissimo negli arrangiamenti “percussivi” che seguono lo sviluppo dei brani.
Se Ives tendeva ad una supremazia degli aspetti colti della tradizione americana, George Gershwin invece incarnava il mito della gente comune americana: le prime contaminazioni tra generi ed in particolare tra classica e jazz avvennero per suo merito.
Il compositore americano riuscì a sistemare le due diverse istanze musicali forte di una preparazione che lo vedeva immerso nelle tematiche impressioniste francesi di fine secolo (Debussy e Ravel), dall’altra l’esperienza vissuta nel periodo d’oro del musical americano gli diede le armi necessarie per affrontare anche le tematiche relative alla musica jazz.
Divenne uno dei compositori più eseguiti di tutti i tempi la cui importanza in tal senso viene condivisa solo con gli altri grandi creatori di standard a stelle e striscie: Cole Porter, Rodgers/Hart, Irving Berlin e Jerome Kern. L’influenza di Gershwin fu comunque subito visibile anche nei compositori americani come William Grant Still e Virgil Thomson che in alcune loro sinfonie completarono il discorso da lui iniziato; anzi Thomson ne ando ancor di più alla radice cercando di trasferire in musica elementi della ruralità americana.
Compositori del livello di Gershwin se ne videro pochi successivamente: sicuramente vanno ricordati tra i più innovativi Aaron Copland, che introdusse elementi folkloristici nella composizione anche sinfonica e Antheil come detto. Nel jazz evidenti furono i legami musicali che portarono alla ribalta personaggi come Duke Ellington e Dave Brubeck.
http://www.percorsimusicali.eu/2010/11/01/la-cultura-musicale-classica-americana-tra-innovazione-ed-americanismi/
Ecco come è nato uno dei brani più noti di sempre
Nato a New York il 26 settembre 1898, George Gershwin, all’anagrafe Jacob Bruskin Gershowitz, è stato uno dei più grandi compositori del Novecento. Autore di centinaia di brani entrati nel repertorio degli standard, utilizzati sia sui palcoscenici di Broadway che nei film di Hollywood, comincia a suonare il pianoforte all’età di dieci anni, senza metodo e da autodidatta. La musica sembra parte integrante della vita di questa famiglia, giunta a New York dalla Russia (il padre Moishé poi americanizzato in Morris, era di San Pietroburgo, così come la moglie Rosa “Rose” Bruskin, conosciuta però già a Brooklyn): la sorella Frances è stata una buona interprete (poi abbandonò il mondo dello spettacolo in favore della famigia) e il fratello, Ira Gershwin è stato ottimo paroliere, spesso in tandem con George.
Ma lui, George, a quindici anni lascia la scuola e trova lavoro: per quindici dollari a settimana, doveva eseguire al pianoforte gli spartiti di nuova pubblicazione per i clienti della Jerome H. Remick and Co., un’azienda della fiorente industria musicale newyorkese, allora nota come Tin Pan Alley. E qui comincia l’avventura. Dopo un primo brano di scarso successo, a 18 anni compone canzoni per Broadway e intanto registra alcune sue composizioni al pianoforte, quindi compone un’operetta dal titolo Blue Monday: gli vale l’attenzione di Paul Whiteman. Che presto gli commissiona una canzone di jazz sinfonico da eseguire all’Aeolian Hall di New York. Era il 1924 e si dice che Gershiwin tre settimane dopo gli presentò la sua Rapsodia in Blu.
Aveva solo venticinque anni e fu lui stesso ad eseguirla al pianoforte per la prima volta il 12 febbraio dello stesso anno all’Aeolian Hall di New York. Rhapsody in Blue è una straordinaria sintesi di musica popolare e colta, un caleidoscopio di generi che rappresenta la molteplicità delle culture che convivevano nelle metropoli americane degli anni Venti.
Orchestrata da Fred Grofé, Rapsodia in Blu nacque originariamente dal nucleo di un brano intitolato American Rhapsody. Concepita all’inizio per soli due pianoforti, fu poi orchestrata per pianoforte e big band e solo un anno dopo il suo debutto fu trascritta nuovamente per pianoforte e orchestra.
Gershwin riuscì a dimostrare che il jazz, genere popolare e prevalentemente da ballo, poteva essere apprezzato dalle platee colte ed esigenti, anche grazie alla natura sinfonica da lui stesso conferita al pezzo, un autentico e originale prodotto musicale americano.
La composizione nacque come una rivelazione improvvisa a bordo di un treno, come ha confidato lui stesso: «È stato sul treno, con i suoi ritmi d’acciaio, il suo rumore secco e violento che è così spesso stimolante per un compositore (mi capita frequentemente di sentire la musica proprio quando sono immerso nel rumore) che all’improvviso ho sentito – persino visto sul foglio – l’intera Rhapsody, dall’inizio alla fine».
Tutti i temi, complessivamente cinque, sono presentati nelle prime 14 misure ed evidenziano la straordinaria fantasia del compositore, che riuscì ad alternare magnificamente vivacità ritmica afroamericana a momenti malinconici, tipicamente blues, un perfetto mix tra speranza e sofferenza.
Una rapsodia in un unico movimento, che si dipana in alcuni temi ricorrenti, progressivamente arricchiti nel corso dello svolgimento musicale. Il tema principale, introdotto in apertura con il famoso glissando di clarinetto, poi rielaborato dal pianoforte e successivamente affidato all’orchestra, riemerge, a volte trasformato attraverso variazioni ritmiche e dinamiche, in vari punti della composizione, alternandosi con altri temi, per riproporsi nell’indimenticabile finale.
Un amalgama sonoro perfetto, sostenuto dai timbri bruniti degli ottoni (trombe e corni) seguiti da quelli più delicati dei “legni”, come flauti, oboi, fagotti.
La prima storica esecuzione del 12 febbraio 1924 all’Aeolian Concert Hall, a cui erano presenti importanti esponenti del mondo culturale di New York, come Heifetz, Kresler, Sousa, Stravinskij e Rachmaninov, fu un successo enorme per il giovanissimo compositore/pianista, che da quel momento si impose nel panorama musicale mondiale. Nelle locandine il concerto era annunciato come “an experiment in modern music” e lo stesso Gershwin lo definì “una sorta di multicroma fantasia, un caleidoscopio musicale dell’America, col nostro miscuglio di razze, il nostro incomparabile brio nazionale, i nostri blues, la nostra pazzia metropolitana”.
Il critico musicale Olin Downes scrisse sul «New York Times», all’indomani della prima esecuzione della Rhapsody in Blue, un giudizio estremamente positivo: “Questa composizione mostra uno straordinario talento, poiché mostra un compositore giovane con obiettivi che vanno al di là di quelli del suo genere, lottando con una forma di cui egli è lontano dall’essere padrone. Nonostante tutto ciò egli si è espresso in una forma significativa e, nel complesso, altamente originale“.
Nell’estate del 1929 Gershwin debuttò anche come direttore d’orchestra in un concerto al Lewisohn Stadium di New York, un enorme anfiteatro all’aperto, dove di fronte a ben 15.000 spettatori diresse la New York Philharmonic con An American in Paris e la Rhapsody in Blue, eseguendo egli stesso la parte pianistica.
Il tema di Rapsodia in Blu è famoso al grande pubblico perché è stato utilizzato come incipit di due film assai fortunati: Fantasia 2000 della Disney e Manhattan di Woody Allen, dove è ricorre anche come brano di chiusura.
Un giorno dopo la morte del grande compositore di Brooklyn, avvenuta l’11 giugno del 1937, il suo amico e collega Arnold Schönberg dichiarò: “George Gershwin era uno di quei rari tipi di musicisti per i quali la musica non è più una questione di maggiore o minore abilità. La musica, per lui, era l’aria che respirava, il cibo che lo nutriva, la bevanda che lo ristorava. La musica era ciò che lo faceva sentire e la musica era la sensazione che esprimeva. Un’immediatezza di questo genere è data solo ai grandi uomini”.